Rosaria Lopez e Donatella Colasanti.

A Sezze, provincia di Latina, la casa, dove viveva Donatella Colasanti, verrà adibita a centro antiviolenza per le donne e porterà il suo nome, progetto reso possibile da due recenti delibere della Regione Lazio. Si ripercorra la storia di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, le vittime di quel massacro del Circeo del 1975. Furono riempite di botte, seviziate, torturate, violentate per due interminabili giorni da un gruppo di pariolini fascisti ed esaltati dal 29 al 30 settembre 1975. Dopo interminabili atrocità ed un’angosciante agonia Rosaria Lopez fu sfinita annegata nella vasca di bagno, Donatella Colasanti sopravvisse fino alla scomparsa avvenuta il 30 dicembre 2005. E’ stata lei l’indomita testimone, ferita nel corpo e nell’anima, a perseguire la verità, dovendo persino subìre da parte dei difensori dei suoi carnefici l’accusa di protagonismo, una parola da bandire dal nostro vocabolario femminista e che da sempre é usata in modo sprezzante, carico di odio maschilista, per metterci a tacere ed annientare ogni nostra ribellione.

articolo aggiornato agosto 2020.

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Rosaria Lopez, diciannove anni e Donatella Colasanti, diciassette anni, vivevano modestamente nel quartiere popolare della Montagnola. Appena pochi giorni prima in un bar dell’Eur avevano conosciuto Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, tre giovani pariolini legati ad ambienti neofascisti di Roma. Da costoro furono invitate ad una festa a Villa Moresca, di proprietà della famiglia di Ghira, sul promontorio del Circeo da tre giovani legati ad ambienti neofascisti di Roma: Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira. Accettarono, varcata la soglia della villa ebbe inizio l’incubo. Fu messa in atto una violenza cieca ed assoluta volta ad annientarle ed agìta dal disprezzo sociale. Al termine dei due giorni di sevizie furono rinchiuse nel bagagliaio dell’auto di Gianni Guido, parcheggiata poi il 1. ottobre 1975 in via Pola a Roma, probabilmente i loro aguzzini contavano di sbarazzarsi dei corpi di entrambe. Ma Donatella Colasanti era viva, attese lunghi minuti rinchiusa lì dentro per accertarsi, che i tre si fossero allontanati, non sentendo più le loro voci, cominciò ad urlarecon tutto il fiato rimastole. Per fortuna un vigile notturno sentì, aprì il portabagagli e la salvò. Lei denunciò subito tutti e tre. Lei venne assistitita dall’eccellente Tina Lagostena Bassi, l’avvocata delle donne. le associazioni ed i gruppi femministi le furono vicini persino durante tutto il dibattimento processuale, molto eguitl dalla stampa per l’orrore, che suscitò presso l’opinione pubblica. Nonostante le prove evidenti e circostanziate, la difesa dei tre criminali fu tutta incentrata sulla presunta inaffidabilità di Donatella Colasanti, l’unica sopravvissuta, contro cui infierirono tentando di screditarla come mitomane e maniaca di protagonismo. La la sentenza arrivò il 29 luglio 1976: l’ergastolo per Gianni Guido e Angelo Izzo, l’ergastolo in contumacia per Andrea Ghira, da parte dei giudici non venne concessa alcuna attenuante. Dopo quattro anni, cioé nel 1980 la sentenza venne modificata in appello il 28 ottobre 1980 con la riduzione a trent’anni per Gianni Guido dopo la dichiarazione di pentimento e l’accettazione da parte della famiglia della ragazza uccisa di un risarcimento.  Ha terminato di scontare la pena il 25 agosto del 2009 fruendo di uno sconto di pena grazie all’indulto. A fronte di una condanna a trent’anni ha scontato appena ventidue anni, essendo fuggito più volte e avendo trascorso 11 anni di latitanza all’estero. Quanto ad Izzo, nel dicembre 2004 ha ottenuto la semilibertà dal carcere di Campobasso, su disposizione dei giudici di Palermo, per andare a lavorare nella cooperativa “Città futura”, ma il 28 aprile 2005  Izzo uccise Maria Carmela e Valentina Maiorano moglie e figlia di un boss pentito che aveva conosciuto in carcere. E’ stato condannato all’ergastolo. Di Ghira risulterebbe essersi arruolato nella legione straniera spagnola con il falso nome di Massimo Testa de Andrés e poi morto in seguito ad overdose nel 1994.

Ma Donatella Colasanti, l’unica superstite, come visse dopo quel tragico evento, come lo elaborò, cosa cambiò in lei? Qualunque parola espressa al di fuori é superflua, il modo migliore é ascoltare  questa intervista da lei concessa ad Enzo Biagi nel 1983

Difficile dire se e quanto il tempo abbia lenito il suo dolore, se e quanto la sua fiducia nel prossimo abbia resistito a quel nefasto contraccolpo …. a distanza di anni e pochi mesi prima della sua scomparsa, nel 2005 fu intervistata dal settimanale Donna Moderna: si riporta tutto il testo ed ognuna tragga le rispettose considerazioni verso questa donna coraggiosa.

Lei Angelo Izzo, l’assassino di Campobasso, quello che ha appena ucciso una madre e una figlia, lo conosce bene. Forse meglio di chiunque altro. Se l’è trovato di fronte trent’anni fa, giovane, cattivo, in preda al delirio di onnipotenza, con tanta voglia d’ammazzare, in una villa al Circeo, insieme a due complici. Donatella Colasanti è l’unica sopravvissuta a quel massacro. La sua amica Rosaria Lopez è stata annegata in una vasca da bagno. Oggi Donatella ha 47 anni, lunghi capelli neri, gambe affusolate. Quando ne aveva 17 restò per 36 interminabili ore in balia di Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido, tre neofascisti romani. Lei non ha dimenticato. Per anni ha scritto a politici, ministri, questori e prefetti. Al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. È stata l’unica a battersi perché Izzo restasse in carcere. «È pericoloso» ripeteva. «Non dategli permessi premio!». Ora è qui, davanti a noi, che sfoglia con rabbia la pila di lettere inutili. La incontriamo nello stesso appartamento, all’Eur, dov’è stata adolescente. Tra queste mura il tempo sembra congelato: ovunque pupazzi di peluches, quadri con Madonne a mezzo punto o intagliate nel legno, vecchie cartoline in bianco e nero con fidanzatini sulla Seicento. È come se l’orologio avesse smesso di girare da quel giorno, il 29 settembre 1975, quando lei e Rosaria furono sequestrate. Una storia di violenze di ogni genere sulla quale non è mai stata messa la parola fine. Nel 1976 la Corte d’Assise di Latina ha pronunciato tre condanne all’ergastolo, poi ci sono stati l’Appello e la Cassazione, ma Andrea Ghira non è mai stato catturato. Guido è finito dietro le sbarre con uno sconto di pena a 30 anni, scappato e ripreso più volte. E Angelo Izzo da 5 mesi godeva del regime di semilibertà. Finché ha ucciso di nuovo: Maria Carmela Linciano, 57 anni, e Valentina Maiorano, 14, moglie e figlia di Giovanni Maiorano, un pentito della Sacra Corona Unita, la mafia pugliese. «È morta una ragazzina» sibila Donatella. «Qualcuno dovrà pagare per aver aperto le porte del carcere al suo assassino». Cos’ha pensato quando ha letto del delitto di Campobasso? «Ho ricevuto la notizia dall’Ansa. Mi sembrava impossibile. Non sapevo che avessero concesso la semilibertà a Izzo, uno che nel 1993 era pure evaso. E poi, nel luglio del 2003, al ministero di Grazia e Giustizia avevano promesso di comunicarmi qualsiasi decisione, permessi premio inclusi, che lo riguardasse. E invece l’ho appreso dai giornali. Ma ora basta: i responsabili dovranno essere puniti. Io non mi arrendo fino a quando non avrò avuto giustizia. Se necessario, mi rivolgerò anche al tribunale internazionale dell’Aia». Con chi ce l’ha in particolare? «L’elenco è lungo. Ma in testa metto Pierluigi Vigna, procuratore nazionale antimafia. È lui che ha dato credito a Izzo come collaboratore di giustizia. Cos’avrebbe mai potuto rivelare quel balordo assassino della strage di Piazza Fontana o dei processi su Andreotti?». Ma questo che c’entra con il delitto di Campobasso? «C’entra eccome! Come collaboratore, Izzo ha goduto di trattamenti particolari, ha dato l’impressione di essersi ravveduto, ha conosciuto altri pentiti, come il padre della ragazzina uccisa. Se non l’avesse incontrato, forse la bambina sarebbe ancora viva». Angelo Izzo è lo straordinario simulatore di cui si parla oggi? Uno in grado di far credere a tutti di essere un uomo cambiato? «Di straordinario c’è solo l’incapacità di chi doveva tenerlo sotto controllo. A Izzo è stato concesso l’incredibile: dal 1995 al 2003 è apparso più volte in televisione e sui giornali, affermando di aver commesso altri omicidi, rapine, sequestri di persona, prima del 1975 e cioè prima del massacro del Circeo. Nessuno, che io sappia, ha indagato su quelle rivelazioni. Gli hanno permesso di sbandierare il suo losco passato davanti al pubblico televisivo e sulle pagine dei quotidiani. Così, per il gusto dello scoop». Secondo lei è un pazzo mitomane? «Smettiamola con la storia del pazzo. Izzo non è un mostro vittima della follia. È qualcosa di peggio. Gli piace uccidere e gli piacciono i soldi. È uno che rifiuta di scontare la pena, che vorrebbe stare in galera come in albergo. Un mostro non si comporta così. Chi uccide perché è malato vuole pagare per i propri crimini, si pente, chiede addirittura di essere giustiziato. Izzo, no. È arrogante, fa male agli altri, non chiede mai scusa. È un assassino e basta». La prima volta che l’ha incontrato, nel 1975, cos’ha pensato? «Sembrava un bravo ragazzo. Parlava di musica classica, per farci buona impressione. Rosaria e io avevamo solo 17 anni! Ci ha invitate a una festa da ballo, dicendo che ci sarebbero stati ragazzi e ragazze, compagni di scuola. Per me la parola “scuola” fu una garanzia. Avevo visto Izzo e altri suoi amici diverse volte. Così per prendere un gelato. Quindi mi sono fidata». Invece quella festa non c’è mai stata. «Quando siamo arrivate nella villa del Circeo, ci hanno fatte subito entrare in casa. Ci hanno puntato una pistola contro, sghignazzando: “Ecco la festa!”. Poi ci hanno chiuso in un bagno minuscolo, senz’aria. Ci hanno spogliate, tolto gli anelli, i documenti, tutto quello che avrebbe potuto renderci identificabili. Sapevano benissimo cosa stavano facendo. Era tutto preparato. I sacchi in cui ci avrebbero messe, da morte, ce li hanno mostrati subito. È stato terribile». Izzo come si comportava? «Voleva essere protagonista, al centro dell’attenzione. Ripeteva in continuazione che lui era capace di uccidere, sosteneva di far parte della banda dei marsigliesi, di essere molto amico di Jacques Berenguer, il capo. Anzi, era proprio per ordine del boss che ci aveva catturate. Diceva che ci avrebbe ammazzate. L’ora e il modo non erano stati decisi, ma dovevamo morire. “Da qui non uscirete vive” diceva con il suo sorrisetto malvagio. Recitava un copione». Odiava le donne? «Gli esseri umani, direi. Ce l’aveva con tutti. Si entusiasmava all’idea di sequestri e rapine. Era un balordo viziato, che voleva diventare qualcuno. Gli piaceva esercitare un potere assoluto su un’altra persona. Ma senza i suoi amici non ce l’avrebbe fatta. Ha sempre bisogno di complici, di qualcuno che gli faccia da sponda, lui». Lei come ha fatto a salvarsi? «A un certo punto ci hanno divise. Rosaria l’hanno portata nel bagno di sopra. Poi sono tornati da me. Ho capito che l’unica, minuscola, speranza che mi rimaneva era fingermi morta. Gianni Guido mi aveva fatto sdraiare per terra, mi aveva messo un piede sul petto e legato una cinghia attorno al collo. Ha tirato così forte che alla fine la fibbia si è rotta. Allora ha cominciato a infierire con la spranga e con i calci in testa». Quindi non è stato Izzo a colpirla? «No, Izzo si esaltava nel dare ordini. Provava gusto nel vedermi soffrire. A un certo punto, ho sentito una voce che diceva: “Questa non muore mai!”. Allora ho deciso di stare immobile, come un animale paralizzato di fronte al pericolo. Sono rimasta così ferma che Izzo e gli altri due hanno pensato di avermi uccisa. Mi colpivano e io non fiatavo: una morta non prova dolore». Poi l’hanno messa nel bagagliaio della macchina? «Sì, assieme a Rosaria, che avevano annegato nella vasca da bagno, al piano di sopra. Ricordo che durante il viaggio verso Roma scherzavano: “Silenzio! Qui ci sono due morte”. E nel mangianastri avevano messo la colonna sonora dell’Esorcista. Per fortuna, arrivati a Roma, hanno parcheggiato la macchina. Volevano andare a cena prima di disfarsi dei nostri corpi. Quando non li ho più sentiti, ho cominciato a urlare con il poco fiato che mi era rimasto». Quando ha rivisto i suoi aguzzini? «Una ventina di giorni dopo. Izzo e Guido in manette. Nella villa del Circeo, per un confronto. Ghira era già latitante». Cos’ha provato? «Niente. Credo di essermi gettata tutto alle spalle nel momento stesso in cui ho capito di essere salva». Come si è comportato Izzo durante il processo nel 1976 a Latina? «Aveva perso l’aria spavalda. Anzi, aveva paura. Tutte quelle donne, le femministe, dalla mia parte. La gente arrabbiata lo spaventava. Scappava via, non riusciva a rimanere in udienza per più di un’ora». Ha letto che i suoi genitori, dopo il delitto di Campobasso, non ne vogliono più sapere di lui? «Figurarsi! Un po’ tardi per pentirsi. L’hanno sempre aiutato. Se non altro, lo hanno riempito di soldi e questo gli ha dato molta sicurezza». Com’è cambiata la vita di Donatella Colasanti dopo il 29 settembre 1975? «Ho sempre amato le cose belle, la musica. Quello che è successo non ha intaccato questa passione. Anzi, oltre al lavoro alla Regione, ho sempre coltivato un’attività di artista:  ho scritto poesie, ho recitato in teatro. Ma negli ultimi anni ho dovuto sospendere per dedicarmi alle mie battaglie giudiziarie». Ha paura degli uomini? «No, ma ho preferito stare sola, essere autonoma, come molte altre donne della mia generazione. Non ho sofferto per il fatto di non avere un marito, dei figli. Anche perché, me lo sento, nel prossimo anno e mezzo mi farò una famiglia tutta mia». Non c’è stato nessun grande amore? «Uno solo, molto spirituale. Poi lui è dovuto partire, per lavoro. Ma non voglio dire di più, è un mio segreto». A conti fatti è una donna felice? «E come potrei non esserlo? Sono una miracolata e ogni giorno devo ringraziare Dio per avermi salvata. Quelli come me hanno il dovere di essere felici!». Riesce mai a guardare un thriller in televisione? «Sì, i film gialli li vedo. E ogni volta penso: potrebbe essere vero, io l’ho vissuto. Ma guardo i thriller soprattutto perché mi piacciono i giudici americani, così combattivi nella ricerca della verità. Qui invece…». Ma in fondo un po’ di giustizia l’ha avuta. Il Tribunale di Latina ha emesso tre ergastoli. «È vero, ma si trattava di una Corte d’Assise. A decidere era una giuria popolare, gente come me, come lei. E poi c’ero io a testimoniare. Per un mese non ho mancato mai un’udienza. Ho affrontato un processo a porte aperte. Ricordo l’avvocato di Izzo che diceva: “I tre giovani non volevano uccidere la Colasanti. L’hanno colpita in testa ma non è uscito neanche un po’ di cervello”. Io gli ho urlato: “Zitto! Non si permetta di parlare così”. Avevo solo 18 anni, ma non mi sono fatta intimorire. Figurarsi se mi imbavagliano adesso!».

articolo aggiornato agosto 2020.

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