Ruth Patir, artista multimediale

articolo di Patrizia Cordone© – copyright – “M/otherland” è il progetto, che da anni cura con la realizzazione di microfilmati tridimensionali davvero suggestivi e di forte impatto, le cui protagoniste sono reali antiche statuine di terracotta raffiguranti le dee della fertilità, animate tecnologicamente ed immerse nella contemporaneità, ad interrogarsi(ci) dalla maternità artificiale alla guerra. L’ultima sua opera su questa scia é visibile parzialmente per pochi minuti alla Biennale di Venezia 2024, giacchè per protesta agli eventi in corso ha chiuso il suo padiglione, cioè in rappresentanza di Israele. Lei è israeliana.

articolo di ©Patrizia Cordone – Tutti i diritti d’autore riservati. Sono vietati il “copia-ed-incolla“, il plagio, la contraffazione dei contenuti e di tutti gli usi illeciti a danno della proprietà intellettuale. In ossequio alla normativa dei diritti d’autore e del copyright le infrazioni saranno perseguite con severità e senza indugio presso la competente autorità giudiziaria.

Ruth Patir è una giovane artista multimediale israeliana, i cui temi sono tratti in parte dalla propria autobiografia, affrontano questioni sociali implicanti la femminilità e le dinamiche nascoste del potere. Per tali rappresentazioni usa molto le videoinstallazioni ricorrendo alla tecnologia, alle simulazioni tridimensionali ed alle tecniche di animazione. E’ nata nel 1984 a New York e vive attualmente a Tel Aviv. Ha conseguito un BFA presso la Bezalel academy of art and design di Gerusalemme nel 2011 ed un MFA presso la Columbia University di New York nel 2015; si è diplomata al programma di residenza “Artport” della Fondazione Arison nel 2019-2020; insegna alla Bezalel academy of arts and design di Gerusalemme ed al Sapir academic college a Sha’ar HaNege in  Israele. Temporaneamente molte delle sue opere sono state esposte presso il CCA, center for contemporary art, il Petach Tikva Museum of Art, il Line 16 urban gallery ed il e Hamidrasha Gallery a Tel Aviv; la New York Copperfield Gallery a Londra;  il  MoMA, The Museum of modern art,  il Collettivo Flux Factory, Danspace project e l’Anthology Film Archives a New York;  la 14a Biennale di Gwangju; mentre altre fanno parte delle collezioni pubbliche  presso il Museo d’Arte di Tel Aviv ed Il Museo di Israele a Gerusalemme; il Centre Pompidou e la Fondazione Kadist a Parigi. Stante la tipologia delle sue opere realizzate filmicamente sempre con l’uso delle tecniche digitali di animazione alcuni suoi lavori sono stati proiettati  al festival New Director/New Films al Museum of Modern Art  ed all’Antologia Film Archive di New York, al Festival del cinema di Gerusalemme, dove ha vinto l’Experimental Cinema and Video Art Award.

Se l’incarico di rappresentare Israele alla Biennale di Venezia 2024 era giunto antecedentemente agli attacchi di hamas del 7 ottobre 2023 e le reciproche controffensive hanno suggerito a Ruth Patir il tema della sua videoinstallazione circa le sofferenze delle donne in territori di guerra, il protrarsi drammatico della situazione in corso le ha maturato la decisione di chiudere il padiglione di Israele, la cui sua opera è visibile dall’esterno del padiglione attraverso la vetrata per circa un minuto. Pochi giorni precedenti l’inaugurazione della Biennale dalle redazioni giornalistiche internazionali è rimbalzata la notizia della sua protesta assieme alle curatrici delle sue opere a Tel Aviv, tutte e tre partecipanti alla biennale d’arte a Venezia: “liberate gli ostaggi israeliani e cessate il fuoco“.

Da sinistra a destra sono: Tamar Margalit, responsabile della direzione dei curatori presso il CCA, centre contemporary art a Tel Aviv; Ruth Patir, artista presente con le sue opere di videoinstallazioni a Venezia e Mira Lapidot, responsabile della direzione dei curatori presso il Tel Aviv Museum art. Di comune accordo hanno esposto il cartello all’esterno del padiglione di Israele chiuso per loro decisione: “gli artisti ed i curatori del padiglione israeliano apriranno la mostra, quando verranno raggiunti gli accordi del “cessate il fuoco” e della liberazione degli ostaggi”. Né gli organizzatori della Biennale né il ministero della cultura israeliano e né le tre curatrici-artiste hanno rilasciato altri commenti. Il cartello è chiaro e non strumentalizzabile a senso unico. Si aspetta ancora il rilascio di centotrentatre ostaggi rapiti da Hamas, la giustizia per le donne israeliane violentate e rapite il 7 ottobre 2024 e la fine dell’escalation bellica su entrambi i versanti. L’opera in questione si intitola “Keening”, che è una forma di lamento vocale per i morti nella tradizione celtica gaelica diffusa in Irlanda ed in Scozia, di antiche origini mediterranee e nel Medio oriente con raffigurazioni di donne disperate ed afflitte dal dolore alla veglia di defunti presenti in infiniti reperti archeologici. Come anziscritto a causa della chiusura del padiglione israeliano la videoinstallazione è visibile soltanto dall’esterno attraverso la vetrata per pochi istanti, qui il video pubblicato dalla pagina facebook “Luoghi e storie di donne” correlata a questo sito.

Nella rappresentazione di Ruth Patir il sonoro caratterizzato per l’appunto da lamenti femminili accompagna la visione di una processione funeraria di donne, i cui corpi sono antiche statuette risalenti all’800-600 AEC, molto diffuse nell’antico Levante, in realtà piccole appena quanto un palmo di mano, che sono state ingrandite a dimensione umana ed animate in movimento in uno scenario contemporaneo, tutto ciò grazie alle tecniche digitali usate dall’artista. Queste donne disperate dal dolore si uniscono in un corteo, dove l’espressione pubblica è condivisa da sentimenti che le accomunano cioè la tristezza e la rabbia. Il punto di vista della telecamera è quello di uno spettatore oppure di un testimone della scena, rivendicando così una visione soggettiva ed incarnata degli eventi bellici in corso ovunque. Le donne abbandonate prendono vita in una processione piena di dolore che sembra una delle tante manifestazioni per gli ostaggi tenuti da Hamas a Gaza e contestualmente dello strazio delle donne palestinesi, ma al di là delle contigenze più note la rappresentazione di Ruth Patir emblematizza in generale l’affranto delle donne nei paesi in guerra tra crimini di stupro, schiavizzazioni sessuali delle donne rapite e lutti.

La videoinstallazione presentata a Venezia, seppure con le modalità anzidette, fa parte di una serie di altri suoi lavori concepiti nel progetto più vasto denominato “M/otherland”, scritto proprio così, una saga di documentari 3D intergenerazionale che reinventa le dee della fertilità dell’antica Giudea come madri della vita reale e con il significato di “terra madre” in contrapposizione al comune “fatherland”, terra del padre, patria. Lo stesso valga per l’animazione delle piccole sculture femminili, donne dimenticate di una civiltà passata, figure silenziose sopravvissute ad antiche guerre e spargimenti di sangue, il cui uso le è sopravvenuto anni fa a Tel Aviv durante una visita dei depositi archeologici ricchi di frammenti di terracotta rappresentanti la fertilità femminile. Da una parte la loro visione le ha evocato l’esperienza composita della femminilità, della frattura e del dolore, resa ancora più palpabile di fronte alle devastazioni della guerra; dall’altra le ha riecheggiato il tema biografico che si interseca con il suo vissuto personale a causa di una malattia genetica compromettente la sua capacità generativa. In sintesi come si sarebbe detto una volta “il personale è politico” oppure “a partire da sé”, laddove il fulcro principale è la maternità, i cui figli sono minacciati dalle guerre e la cui capacità è annullata dalle malattie. Quindi lei ha reinventato le dee della fertilità dei tempi antichi come donne della vita reale contemporanea.

Nel 2020 sempre con le antiche sculturine femminili animate ed a dimensione umana ha realizzato “Petah Tikva”, che in ebraico significa “porta della speranza” ed è una città israeliana, nota anche come “Em HaMoshavot”, “madre dei moshav“, un tipo di comunità agricola sionista che si differenzia dai kibbutzim in quanto permane la proprietà individuale delle fattorie agricole. Questa opera videotridimensionale è ambientata all’interno della sala d’attesa della clinica della fertilità presso l’ospedale della città di Petach Tikvah. Qui le figurine di divinità cananee della fertilità risalenti a 2800 anni fa riempiono la stanza in attesa degli appuntamenti assegnati. Mentre le divinità aspettano il loro turno nella clinica e meditano sulla loro dimissione, gli schermi televisivi trasmettono la notizia: gli animali selvatici – anch’esse figurine cananee animate digitalmente – stanno invadendo gli spazi urbani delle principali città e le donne pazienti assise in sala d’attesa sono silenziose, i loro sguardi fluttuano dalla visione degli schermi televisivi all’espositore numerico delle loro chiamate per la visita medica, un’interazione muta ed eloquente sull’interrogativo della maternità in una società destinata a sparire a seguito di invasioni.

Nel 2022 è stata la volta di “Marry Fuck Kill” con gli stessi soggetti e le identiche modalità tecniche. Nell’opera l’artista dialoga con sua madre femminista, con cui affronta la complessità della rappresentazione storica della forma femminile, i cliché passivi ma ostinati e le incomprensioni che la circondano.

Per la realizzazione di questi filmati, che movimentano le reali sculture femminili, l’artista si avvale di risorse tecnologiche sovente utilizzate dal cinema d’animazione e dalla medicina, ovviamente per finalità differenti. Una di queste è la “mocap”, abbreviazione di “motion capture”, in italiano “cattura del movimento”, più dettagliatamente per la video-arte: un soggetto indossa un abito dotato di marcatori, i cui segnali trasmessi ad ogni suo movimento sono rilevati da telecamere, poi trasmessi ed elaborati dal computer; tali segnali sono a tutti gli effetti le coordinate del movimento, che vengono trasferite nelle statuine, le cui sagome sono già riprodotte seppure in immagini statiche sul computer ed animate a seguito di questo processo di trattazione, così sono in grado di muoversi virtualmente come un essere umano, replicando l’azione. Nel caso delle opere della saga “M/otherland” di Ruth Patir è un’applicazione geniale anche originale per indagare e riesumare l’archetipo della “Dea Madre“, dissotterandolo dai depositi museali e dalla stagnazione di studi pregressi avanzati un tempo, che oggi urge di essere approcciato con gli interrogativi posti dalla contemporaneità ad ampio spettro. Pur sempre a partire dalla valorizzazione del “femminile”.

articolo di ©Patrizia Cordone – Tutti i diritti d’autore riservati. Sono vietati il “copia-ed-incolla“, il plagio, la contraffazione dei contenuti e di tutti gli usi illeciti a danno della proprietà intellettuale. In ossequio alla normativa dei diritti d’autore e del copyright le infrazioni saranno perseguite con severità e senza indugio presso la competente autorità giudiziaria.