Djamila Boupacha, l’icona dell’indipendenza algerina

Oggi il suo nome é passato nel dimenticatoio generale, forse ricordarla è giusto oltre che necessario a fronte delle violenze subìte dalle donne in regime di guerra, tema sempre attuale. Djamila Boupacha, algerina, militante per l’indipendenza del suo paese dall’occupazione coloniale francese, venne arrestata, torturata persino violentata con l’accusa falsa di attentato. Prima con gli intellettuali francesi capeggiati da due primedonne come Simone De Beauvoir e Simone Veil, poi con quelli di altri paesi per il coinvolgimento della stampa internazionale si sviluppò un forte movimento di opinione per la sua liberazione avvenuta nel 1962.

articolo di ©Patrizia Cordone – Tutti i diritti d’autore riservati. Sono vietati il “copia-ed-incolla“, il plagio, la contraffazione dei contenuti e di tutti gli usi illeciti a danno della proprietà intellettuale. In ossequio alla normativa dei diritti d’autore e del copyright le infrazioni saranno perseguite con severità e senza indugio presso la competente autorità giudiziaria.

Nata nel 1938 a Saint-Eugène, Bologhine, in Algeria all’inizio della guerra per l’indipendenza algerina ha lavorato come apprendista presso l’Ospedale Béni Messous, ma al termine del suo tirocinio non le è stata rilasciata alcuna attestazione a causa della sua razza e religione e proprio questo discrimine a suo danno si è rivelato determinante per il suo impegno politico contro il sistema coloniale francese in Algeria. Abbandonata l’Udma, l’unione democratica per il manifesto algerino, dove ha iniziato a militare dall’età di quindici anni, si è impegnata con l’F.N.L. Il 10 febbraio 1960 le truppe francesi  hanno arrestato lei e la sua famiglia e li hanno  condotti alla caserma militare a El Biar, dove sono stati sottoposti ad interrogatori brutali. Successivamente Djamila Boupacha è stata trasferita alla  prigione di Hussein Dey, dove sotto tortura le è stata  estorta la confessione di un crimine da lei mai commesso, cioè l’attentato dinamitardo alla Brasserie des Facultés, il ristorante dell’Università ad Algeri il 27 settembre 1959. Durante la sua detenzione protrattasi per più di un mese ha subìto torture di ogni sorta con percosse, con bagni gelidi, scariche elettriche e soprattutto violenze sessuali continuate. Proprio queste ultime sono state un’esperienza comune di tutte le donne arrestate in questo conflitto come metodo brutale di dissuasione per terrorizzare ed umiliare sistematicamente la comunità algerina. Ma nonostante tutto lei ha deciso di portare la sua vicenda a conoscenza dell’opinione pubblica, ancora con maggiore determinazione considerata la sua estraneità totale al crimine attribuitole e la cui confessione è avvenuta sotto torture inaudite. Alla sua difesa è stata incaricata l’avvocata Gisèle Halimi, che giunta ad Algeri ed a distanza di anni con dolore dichiarava: “Avevo incontrato Djamila nella prigione del Barbarossa, ricorda l’avvocato, per vedere sul suo corpo le tracce di torture, i seni bruciati dalle sigarette, le costole rotte dai colpi. Ho deciso di essere suo avvocato, così ho chiamato Simone de Beauvoir, che è stata brava e diretta” (fonte:  Humanity, 1 gennaio 2000). Stante il diniego di rinnovo dei permessi al visto e quindi di fatto a rischio il patrocinio di ritorno a Parigi da parte della sua avvocata è stato creato un “Comitato per Djamila Boupacha“, presieduto da Simone de Beauvoir, comprendente anche Germaine Tillion. L’obiettivo è stato l’interessamento a livello internazionale dell’occupazione militare francese in Algeria e dei sistemi repressivi usati contro la popolazione in lotta per l’indipendenza. Il 24 giugno 1960 a tale scopo il comitato ha indetto una conferenza-stampa, dove Simone de Beauvoirè intervenuta. Quindi della vicenda di Djamila Boupacha è stato pubblicato un libro, con la sua prefazione, ristampato da Gallimard nel 2000. L’opinione pubblica ed i mass-media hanno cominciato ad interessarsene, Le Monde ha stampato  un articolo di Simone de Beauvoir e l’ambiente sia intellettuale che di artisti come Alleg, Philip e  Picasso si è impegnato a perorarne la causa. Nel 1960 inevitabilmente da questa campagna di informazione è sortito  un movimento internazionale, con manifestazioni davanti a diverse ambasciate francesi ovunque dagli Usa al Giappone. Inoltre anche in base agli accordi di Evian Simone Veil, allora delegata della magistratura al ministero della Giustizia, ha contribuito al trasferimento del processo dall’Algeria alla Francia a protezione di Djamila Boupacha più volte minacciata per ottenerne il silenzio, tanto più che nel suo paese gran parte degli avvocati erano perseguitati politici e di conseguenza arrestati e deportati.

Nel giugno 1961 al tribunale di Caen si è svolto il processo, purtroppo in base agli accordi di Evian i suoi torturatori non sono stati perseguiti,  la condanna a morte contro Djamila Boupacha è stata  tramutata in amnistia con la sua liberazione avvenuta il 21 aprile 1962.

La sua storia è diventata patrimoio comune sia per l’Algeria che per la Francia, ovviamente per motivi differenti, soprattutto grazie al suo impegno al termine della guerra di indipendenza algerina. Infatti si è attivata molto a favore del diritto al lavoro delle donne algerine e del diritto al’istruzione; nel 2022 le è stata offerta la candidatura a senatrice in Algeria, seppure abbia rifiutato per restare a fianco delle sue connazionali così come ha opposto il suo diniego a tutte le strumentalizzazioni della sua iconicità simbolica. Meritorio è “Pour Djamila” il telefilm realizzato da Caroline Huppert, sorella della più famosa Isabelle, attrice, trasmesso dalla televisione francese nel 2011. E’ stasta insignita di importanti onorificenze quali Gran Cordone dell’Ordine del Merito Nazionale in Algeria, Grand’Ufficiale dell’Ordine della Repubblica in Tunisia.

Terminati sia l’iter processuale che la sua persecuzione, è rimasta per qualche tempo un’icona dell’indipendenza algerina, a cui molti intellettuali ed artisti hanno dedicato le loro opere, convegni e conferenze. Gradualmente la sua storia è scomparsa dalla scena pubblica, come quella di molte-i attiviste-i nazionaliste-i, che hanno svolto un ruolo decisivo per la liberazione del loro paese, ma non l’affermazione del principio “niente torture né violenze sessuali alle donne neanche in stato di guerra“, istanza recepita dal tribunale internazionale dell’Aja nel 1993.

articolo di ©Patrizia Cordone – Tutti i diritti d’autore riservati. Sono vietati il “copia-ed-incolla“, il plagio, la contraffazione dei contenuti e di tutti gli usi illeciti a danno della proprietà intellettuale. In ossequio alla normativa dei diritti d’autore e del copyright le infrazioni saranno perseguite con severità e senza indugio presso la competente autorità giudiziaria.